#COLLETTIVOPS
Scriviamo insieme un romanzo collettivo! Un esperimento per uscire di casa e scappare dal mondo con la fantasia!
Nei giorni scorsi abbiamo lanciamo una attività nuova: vogliamo sperimentare la tecnica del racconto collettivo, una sorta di gioco letterario, portato al successo dal collettivo #WuMing, al quale si sono affiancati i collettivi #KaiZen e #PaoloAgaraff.
Il collettivo potrebbe chiamarsi #CollettivoPS. - post scriptum 😅... Partendo da un incipit che ci ha regalato un utente proviamo a scappare dal mondo, ad uscire da casa con la fantasia, scrivendo anche noi, inventando storie... esiste un modo migliore?
Come fare? Potete commentare il post, inviare in privato alla biblioteca o all'indirizzo mail bibliotecabernardini.lecce@regione.puglia.it.
La continuazione deve essere lunga max 2500 caratteri spazi inclusi, deve iniziare con il numero progressivo del "capitolo" e deve lasciare ad altri aperta la possibilità di continuare il racconto. Si può scrivere più volte ma solo dopo che altri abbiano scritto sotto il nostro post. I post che arriveranno in privato saranno pubblicati dalla biblioteca.
Che ne pensate? Ci proviamo?
qui di seguito la pagina in aggiornamento con tutti i post inviati dal collettivo!!
1. Il cielo divenne buio, nero, scuro, ma succedeva piano piano… era mezzogiorno e una strana sensazione cominciò a passarmi sotto la pelle. Ci fermammo a guardare il cielo. Non uno che riuscisse a dire cosa stava succedendo. Cominciai a tremare. Pensai: è la fine del mondo, come la racconta nonna, uguale! Sembrava arrivasse la notte, ma era solo mezzogiorno... non riuscivo a comprendere. Il Supersantos, consumato da anni e pietre, era di tutto il gruppo, di tutti e dieci e di nessuno, dovevo recuperarlo. Dovevo recuperalo in fretta. Dovevo prenderlo io. Tutti si guardavano intorno: scappiamo, ci nascondiamo, aspettiamo qui? gli occhi si interrogavano. Quando Toti cominciò a correre, senza capire, senza pensare, cominciammo a correre anche noi. Zia era lì, nell’androne del palazzo che si affacciava sulla piazza dove giocavamo, con decine e decine di altre donne tutte uguali e le foglie marroni incollavano ogni immagine. Non aveva senso cercarla, era troppo veloce la fine del mondo. Vidi Toti nascondersi in una cassetta di legno di cui l'androne era pieno, altri facevano la stessa cosa, mentre le donne non si accorgevano di nulla, o forse erano agitate anche loro, non ricordo se riuscii a guardare cosa facevano le mamme e le zie di tutti. Aprii una cassetta e ci entrai dentro anche io, sopra cataste di tabacco appiccicoso, cosparso da una polverina. Tremavo tanto e stringevo il Supersantos, la voce non usciva e fuori sentivo canti o espressioni di meraviglia o risa o grida? Non riuscivo a capire. Qualcuno mi passava accanto ogni tanto e sentivo voci più forti e chiare, ma non capivo cosa dicevano, non capivo. Pensavo solo che la fine del mondo era arrivata. Immaginavo gli altri, tutti chiusi nelle cassette. Ce l'avranno fatta ad entrare tutti? Qualcuno sarà riuscito magari a chiedere aiuto a parlare con qualche mamma? Eravamo in dieci e Toti era il più furbo, il più intelligente. Lo abbiamo seguito per questo, lui saprà... Con gli occhi chiusi, stretti, sentii un'aria diversa e qualcosa che mi toccava la pancia. Erano i piedi di Nina. Entrò nella cassa e si stese accanto a me. Avevamo 7 anni non di più. E non so per quanto tempo siamo rimasti in silenzio chiusi lì.
2. Il respiro di Nina era frenetico, convulso, spaventato. Anche io ero spaventato e continuavo a guardarmi intorno per cercare di capire cosa stesse accadendo.
- Hai paura? – domandai a Nina.
Lei non rispose ma si mosse per cercare una posizione più comoda. Sentivo i suoi piedi calpestare la mia pancia. Faceva caldo in quella cassetta, eravamo stretti. Lei non riusciva a trovare pace, continuava a contorcersi come un serpente; a un certo punto spostò il pallone e si distese sopra di me, mi abbracciò e poggiò la sua testa sul mio petto. Mi venne istintivo respirare più lentamente e abbracciarla anche io. Passò del tempo silenzioso, quasi sospeso. Tutto si era fermato, anche le voci là fuori, tutti i rumori. Penso che dovetti addormentarmi. Sognai la casa dei nonni al mare e io che giocavo nel piccolo giardinetto col Supersantos, mio fratello e il cane del nonno, che si chiamava Moretto. Faceva caldissimo, c’era un albero di fico gigante, una sedia di ferro blu arrugginita per la maggior parte e il sole sparava sul muro di cinta una luce bianchissima. Fui risvegliato da alcuni colpi di tosse; riconobbi che erano di Toti. Aprii gli occhi ma non riuscii a vedere molto se non i capelli di Nina. Da fuori si sentiva che aveva iniziato a piovere, l’odore della terra bagnata entrò fortissimo nella nostra cassetta. A un certo punto una voce disse:
- Dobbiamo caricare tutte ste cassette, veloci! Iniziamo da qua.
Qualcosa scosse la nostra cassetta. La mia schiena si gelò all’istante. Nina si avvinghiò a me con tanta forza che non riuscivo quasi più a respirare.
3. Avremmo dovuto urlare, farci sentire "Fermi, fermi, fermi... ci sono due bambini qua dentro!".
Invece, la paura prese il sopravvento e serrò le mie labbra dalle quali uscì soltanto un piccolo incomprensibile bisbiglio.
Nina dovette provare, immagino, la stessa sensazione perchè la sentì stringere i pugni e irrigidirsi nello sforzo, ma senza riuscire a parlare.
Avevo provato spesso, nei sogni più movimentati, quella sensazione di immobilità, provocata da una forza soprannaturale e sconosciuta. Magari dinanzi ad una porta durante una fuga, con la mano poggiata sulla maniglia che non rispondeva ai comandi. L'impulso mentale e nervoso che non si tramutava in movimento, in una semplice rotazione. Alle spalle il sicario di turno che si avvicinava imprecando e sparando all'impazzata, chissà perchè proprio nei miei confronti. Quando ormai la fine era vicina e inevitabile, puntualmente, per fortuna, l'incubo si interrompeva o succedeva qualcosa sulla scena che cambiava la mia cattiva sorte. Era uno dei peggiori sogni per me: mi lasciava addosso un brutto risveglio e mi faceva incazzare il fatto di non riuscire a cavarmela da solo in quelle situazioni difficili, mi sentivo impotente e indifeso, meno "uomo" e coraggioso di quello che volevo far credere a miei compagni.
Quella volta, però, nella cassetta, nessun colpo di scena venne in nostro soccorso.
Da sotto sentivamo chiaramente la pressione sul legno di qualche elevatore. Avvertimmo subito dopo il distacco dal terreno. Per un istante mi sentì anche leggero e incuriosito da quella manovra.
Poi, il breve spostamento, con qualche scossone di troppo e conseguente sballottolamento da destra a sinistra.
Le voci degli operai erano troppo lontane e ovattate per poter capire o anche solo intuire il significato.
Sarebbe bastato sollevare il pannello, tirare fuori le teste, farsi vedere e spiegare i fatti.
Inspiegabilmente rimanemmo ancora immobili, imprigionati nei nostri pensieri, come incatenati ad un destino misterioso.
4. “Ci sparano, ci sparano!!” cominciai a urlare e diedi un calcio improvviso, di scatto, per scappare trovando il legno della scatola a fermarmi.
“Ehi che dici? Che hai sentito?” urlò Nina.
“Scusami” dissi sbiascicando “forse mi ero addormentato” .
“Ma come cavolo fai a dormire? Io ho paura, tanta paura”
La sentii singhiozzare in silenzio. Come se volesse ingoiare le lacrime.
Ma oltre a quello non sentivo più nient’altro. Non c’era più rumore di motore, di strada, sobbalzi… Eravamo fermi e c’era silenzio intorno.
“Nina, Nina siamo fermi!” volevo restare ancora accanto a quel corpo piccolo e caldo e con le dita dei piedi che uscivano dai sandali fredde. Il supersantos mi impediva di poggiare il petto sulla sua schiena. Volevo dirle non avere paura, ci sono io… ma volevo uscire. Volevo uscire anche io. “Nina apri la cassa, apri!”
Ma prima che Nina riuscisse a muoversi la cassa si spalancò e si sentirono urla di spavento nostre di altri di luce… non si capiva cosa ci aveva travolto..
“Hai capito? Oh vagnoni, questo sta nella cassa con la signorina” gridava e rideva Toti.
In un attimo tutti furono intorno alla cassa a ridere e a fare smorfie, facce di bacini e occhiolini. C’eravamo tutti, eravamo tutti lì. Come se quella cosa scura che ci aveva travolti ci avesse trasportati in un’altra dimensione tutti insieme. Pallone compreso.
“Cretini” disse Nina uscendo dalla cassa e cercando di pulirsi il vestito e le gambe da quella sostanza appiccicaticcia, di tabacco e polverine gialle, e pungente… Aveva i pantaloni alle ginocchia, marroni chiari, sporchi come le gambe.
Io non dissi nulla, mi guardavo intorno mentre mi rialzavo con difficoltà.
Toti mi strappò il pallone di mano e cominciò a palleggiare collo ginocchio collo ginocchio…
“Ma dove cacchio siamo finiti…” dissi a voce bassa…
Era una specie di capannone, enorme vuoto, altissimo, pieno solo di cassette depositate in alcuni punti. C’erano diverse finestre e un portone grande. Scappai verso il portone e niente era chiuso. Provai a tirare un calcio a niente chiuso. Allora cominciai a correre verso una finestra.
“eh non ti affrettare amico, sta tutto chiuso e stiamo in campagna. C’è il sole, e il mondo non è finito ancora!!!” gridò ancora Toti ridendo e passando la palla agli altri che cominciarono e giocare.
“Oh vagnoni ma siete impazzii! Ci cercheranno a casa, non sappiamo dove stiamo, non sappiamo che è successo. E se sono morti tutti al paese? Oh vagnoni scappiamo dai, che cazzo giocate?”
Ma nessuno mi sentiva, ridevano e giocavano tra la polvere e l’aria pesante di tabacco nel capannone. Io continuavo a correre da una finestra all’altra, tutte con le sbarre, alcune aperte facevano entrare aria di terra arsa e secca, odore di fieno e anche di animali, di stalla, entravano mosche e mosconi, ma sbarre anche lì… da un lato all’altro del capannone le voci dei loro giochi rimbalzavano come un’eco e si perdevano.
Che cazzo di stronzi pensai… mentre rallentavo la corsa e mi voltavo a guardarli.
Come una strana sensazione mi passò lungo la schiena, tipo un brivido che arriva alla nuca e che non sapevo spiegarmi.
Anche Nina giocava.
E rideva.
E cercava i piedi di Toti.
5. Il sangue mi ribolliva all’idea di Nina che giocava con Toti e rideva con lui, mentre doveva essere spaventata e cercare me… eppure fino a qualche ora fa Nina era una ragazzina che giocava con noi, solo quello…
Tutti in realtà forse eravamo un po’ innamorati di lei, tutti cercavamo di averla vicino. Chi esplicitamente standole addosso, chiamandola, stringendola, chi provando a prenderla in giro, a sollevarle la gonna, a prenderle le scarpe, chi non passandole mai la palla, chi invece evitandola e guardandola in silenzio…
Nina era un anno più grande di noi. Le altre ragazze l’estate la passavano a ricamare tutte insieme nella corte della Maria, insieme ad alcune mamme, zie, alle sorelle più grandi e alle cugine. Le femmine parlavano sempre. Parlavano parlavano. Parlavano di quello che è successo in piazza tra mescio Ntoni e suo fratello, che dice si siano picchiati per quella storia della casa della madre morta. Parlavano di Vitina, che dice l’hanno vista ancora con un altro che entrava a casa sua mentre il povero marito era in campagna. Parlavano di quella che non ha i soldi per comprare il pane e dice che fa le pulizie a casa di don vincenzo… ma non fa pulizie quella, chissà quali servizi gli fa in casa… parlavano parlavano sempre. A volte cantavano. Ma le ragazzine si vergognavano spesso di cantare e allora rimanevano in silenzio e ridevano e arrossivano ad alcune canzoni che parlavano sempre di cose d’amore. Le sue compagne erano sempre vestite pulite e con i capelli ordinati. Anche Nina arrivava pulita da noi tutti giorni, ma tornava sempre sporca e strappata.
Aveva i capelli lunghi Nina, ma a volte se li tagliava da sola con le lamette quando era seduta all’ombra mentre ci guardava. E nessuno mai le diceva non li tagliare, sono belli, tagliali ancora, falli più corti. Quando lei si toccava i capelli con la lametta noi la guardavamo di nascosto e continuavamo a giocare.
Spesso quando veniva ci portava la bottiglia d’acqua vuota, la riempiva dalla fontana fresca lì vicino la piazzetta e poi ci passava la bottiglia per bere. Che poi finiva sempre che giocavamo a tirarcela sopra.
Nina parlava pochissimo. Però sorrideva sempre. Aveva gli occhi grandissimi scuri e sorridenti. Nina parlava con gli occhi. Ed era felice quando stava con noi. Noi urlavamo sempre invece. Sempre. Urlavamo per salutarci. Urlavamo per passarci la palla. Urlavamo per litigare e ci picchiavamo almeno una volta al giorno a turno. Ma poi rigiocavamo. E non c’era da chiedere scusa, da fare pace, da sistemare le cose. Si finiva di litigare e si continuava a giocare.